Quante volte ci è capitato di dire, in un momento non particolarmente felice della nostra vita, o di sentir dire a qualcuno: “Sono depresso!”, intendendo con ciò essere di umore triste ed abbattuto? Spesso, credo. E’ un modo di dire entrato a far parte del linguaggio comune, tanto che già diversi anni fa ebbe molto successo una canzone di un gruppo italiano che si faceva chiamare Prozac+, nome di un noto farmaco antidepressivo. Inoltre basta immettere la parola “depressione” in un qualunque motore di ricerca su Internet per venire letteralmente sommersi da siti che si occupano dell’argomento (non sempre a ragion veduta, peraltro!).
Tuttavia, il fatto che la depressione sia un fenomeno piuttosto diffuso ed abbastanza conosciuto, non implica necessariamente che chi affermi di essere depresso lo sia veramente, dato che nella maggior parte dei casi (per fortuna!) l’esclamazione sopra riportata non corrisponde a realtà, almeno per come si intende la depressione in ambito clinico. Tutti quanti, infatti, abbiamo l’esperienza di una giornata storta, in cui siamo giù di corda, tristi, più irritabili del solito e ci sentiamo “un po’ depressi”. Molto probabilmente, però, non si tratta di un disturbo depressivo, ma piuttosto di un calo d’umore passeggero e, soprattutto, quando ci capita di provare queste sensazioni, di solito è perché ci è successo qualcosa e in genere sappiamo qual è l’origine della nostra profonda tristezza.
Nella depressione vera e propria, invece, giorni e mesi di paralizzante malinconia compaiono e perdurano senza motivo apparente (“è una cosa che mi è capitata addosso da un giorno all’altro ed è stato come scendere all’inferno”), le circostanze di vita non la giustificano ed è troppo marcata o si prolunga troppo nel tempo rispetto a quanto le persone in genere ritengono sia abituale e sensato.
La persona depressa, oltre a provare un’intensa disperazione e una sensazione di vuoto, non ha desideri e non prova piacere in niente, neanche in quelle attività che prima le davano soddisfazione, non vede alcun motivo per risollevarsi dal suo stato di prostrazione (che ritiene ineluttabile, definitivo e persino giusto perché sente di meritarselo), si considera incapace ed immeritevole di vivere, priva di qualità morali e intellettuali, prova un intenso senso di colpa ed è convinta che il suo stato d’animo non potrà cambiare in futuro (da qui a volte l’ideazione suicidaria: “I miei parenti e gli amici staranno meglio senza di me”). Oltre a questi aspetti, sono presenti anche dei sintomi psicofisici, quali ad esempio insonnia, profondo senso di fatica, atteggiamento cupo e taciturno, difficoltà a concentrarsi, ideazione fissa, lentezza nell’eloquio e nei movimenti, inappetenza, stitichezza, perdita del desiderio sessuale, ansia. Inoltre questi sintomi causano un disagio clinicamente significativo o un’alterazione del funzionamento sociale, lavorativo, o di altre importanti aree, e non sono meglio giustificati da un lutto.
Spesso sono i parenti più stretti di una persona depressa a rivolgersi per primi ad uno specialista: dopo aver magari tentato, in buona fede, di risollevare il morale della persona depressa spronandola e invitandola a sforzarsi di reagire, si rendono conto che ciò non fa che peggiorare la situazione perché in questo modo il depresso si sente ancora più in colpa, e quindi si abbatte ancora di più. Tanto più è grave la compromissione di pensiero e funzionamento del depresso (si parla in alcuni casi anche di psicosi depressiva), tanto meno è probabile che sia il paziente stesso ad avvicinarsi alla cura: egli potrebbe essere convinto di essere talmente malvagio che il terapeuta inevitabilmente finirebbe per odiarlo, e legarsi ad una persona che alla fine lo abbandonerebbe a causa della sua supposta cattiveria sarebbe un dolore insopportabile per chi soffre di una grave forma di depressione.
E’ proprio in questi casi più gravi che può rendersi utile affiancare la psicoterapia alla terapia farmacologica. I farmaci utilizzati sono: antidepressivi triciclici (sono stati i farmaci più utilizzati); IMAO (inibiscono l’enzima monoamminossidasi che distrugge la serotonina, la noradrenalina e la dopamina); inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (bloccano il riassorbimento della serotonina; questi farmaci hanno il minor numero di effetti collaterali); terapia a base di litio (uno stabilizzatore dell’umore).
Ovviamente la terapia della depressione NON può limitarsi solo all’uso dei farmaci, anche per una questione apparentemente banale: la compliance, cioè la capacità di attenersi alle indicazioni terapeutiche dello specialista al quale ci si è rivolti. Infatti non è detto che, se lo psichiatra prescrive degli antidepressivi ad un suo paziente depresso, questi segua la cura o la posologia che gli sono state prescritte, e ciò può verificarsi per molti motivi: la depressione può venire percepita come un disagio prettamente psicologico, e quindi si ritiene che i farmaci non siano necessari o, peggio, siano dannosi per l’organismo (magari il depresso sta pianificando il proprio suicidio, ma si preoccupa che una pillolina possa danneggiargli il fegato!); il paziente depresso, proprio per le caratteristiche intrinseche della sua malattia, potrebbe non sentirsi degno di essere curato perché si percepisce come una persona ignobile (e questo soprattutto nei casi più gravi); i familiari non sono adeguatamente coinvolti nel processo di cura e quindi non collaborano con lo specialista nel somministrare i farmaci al paziente e nel sostenere il processo di cura; può spaventare l’introduzione nel proprio organismo di sostanze chimiche che possono alterare le funzioni della mente… E questo solo per citare alcuni dei problemi che possono insorgere quando vengano prescritti dei farmaci antidepressivi.
Risulta quindi chiaro che la sola terapia farmacologica sia insufficiente, anche perché alcuni pazienti non reagiscono positivamente ai farmaci. E’ necessario quindi, anche con altri tipi di patologie, ma in particolare con i depressi e i loro parenti, che sia ricercata la cooperazione, l’alleanza terapeutica, e questo può avvenire solo attraverso un ascolto empatico, una comprensione della sofferenza psichica, un’attenzione umana al problema, in altre parole attraverso la relazione. Va comunicato al paziente che si comprendono i motivi per i quali egli è depresso, ma contemporaneamente si dovrebbe chiedergli di collaborare nel trovare le cause che stanno alla base della malattia. Commenti del tipo: “Lei non ha ragione di essere depresso, ha così tante belle qualità!” falliscono miseramente l’obiettivo di consolare il paziente perché, anche se possono essere oggettivamente veri, il depresso è convinto esattamente del contrario, e quindi non si sentirà compreso e non potrà nascere la necessaria alleanza terapeutica. D’altra parte, poiché i depressi sono molto suscettibili alle critiche, il terapeuta dovrà stare molto attento a non assumere atteggiamenti giudicanti, che sarebbero immediatamente captati dai pazienti di questo genere, che sono alla continua ricerca di conferme rispetto alla possibilità di essere rifiutati dagli altri.
I pazienti depressi fanno di tutto per essere buoni pazienti, per il timore di essere abbandonati dal terapeuta, quindi, nel prosieguo del percorso di terapia, si deve considerare un progresso l’atteggiamento oppositivo da parte del paziente (scordarsi i soldi per il pagamento delle sedute, ad esempio) perché ciò significa che non ha più paura che il terapeuta lo abbandoni se lui non è abbastanza bravo. Spesso per i pazienti depressi è una vera rivelazione riconoscere che la libertà di ammettere i propri sentimenti negativi accresce l’intimità, invece di minare i rapporti interpersonali, come loro credono e temono. Inoltre i pazienti dovranno alla fine abbandonare la loro posizione di inferiorità e vedere il terapeuta come un normale essere umano con i suoi difetti.
La mia videointervista a Radio Venezia sulla depressione
Bibliografia
– American Psychiatric Association (1996), Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-IV). Masson, Milano.
– Gabbard, G. O. (1995), Psichiatria Psicodinamica. Raffaello Cortina Editore, Milano.
– Jervis, G. (2002), La depressione. Il Mulino, Bologna.
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